LA RIFORMA DELLA PREVIDENZA ALL’ORIZZONTE

Calcolo contributivo per tutti e penalizzazioni per chi lascia il lavoro prima di una determinata età, con un potenziamento della previdenza complementare.
Affermare che ogni autunno negli ultimi anni riserva sorprese dal punto di vista climatico è senz’altro retorico. Ma è altrettanto retorico affermare che ogni autunno nel nostro Paese è “caldo” sul piano delle vertenze di lavoro e gravido di propositi riformatori. A tenere banco sul primo aspetto è il green pass, sul secondo la promessa di una riforma delle pensioni (ma anche delle integrazioni salariali, del Fisco, della circolazione dei monopattini, ecc.).
Come è possibile nel 2021 riproporre il tema della riforma delle pensioni? E in quale chiave? Per consentire l’uscita anticipata dei lavoratori o per inasprire i requisiti di pensionamento? Per mitigare gli effetti penalizzanti del sistema di calcolo contributivo o per darne un’applicazione universale?
Alla fine del 2021 si conclude tra luci e ombre l’esperienza della pensione anticipata con la c.d. quota 100, che non sarà prorogata perché insostenibile per la finanza pubblica. Anche il congelamento fino al 2026 dei requisiti per la pensione anticipata “ordinaria (42 anni e 10 mesi per gli uomini, 41 e 10 mesi per le donne) è a rischio.
Dunque, quali sono gli spazi concreti per un intervento riformatore?
Per rispondere a queste domande è utile mettere a fuoco le direttrici dei provvedimenti di riforma, che vincolano come dei binari ideali i percorsi degli odierni aspiranti riformatori. Qualunque riforma dovrà garantire in ogni caso l’equilibrio finanziario e non potrà generare ulteriori oneri a carico di lavoratori e imprese.

Il quadro di riferimento – Il nostro ordinamento pensionistico è la risultante un po’ caotica della stratificazione storica più che della sostituzione per sovrascrittura di numerosi interventi legislativi. Senza risalire troppo nel tempo, basti ricordare la riforma Amato del 1992, che tentò di correggere il sistema di calcolo retributivo per ancorare l’importo della pensione alla dinamica retributiva dell’intera vita lavorativa e non più al dato medio degli ultimi 5 anni e che elevò l’età per il pensionamento di vecchiaia. Le nuove regole si affiancarono a quelle esistenti allo scopo di salvaguardare le “aspettative pensionistiche” dei lavoratori: ricordate quota A e quota B della pensione? Ebbene, vengono dalla riforma Amato.
Ma la svolta maggiore è sicuramente quella imposta 3 anni dopo, nel 1995, dalla riforma Dini (L. 335/1995) che introdusse dal 1996 un nuovo sistema di calcolo, che collegava l’assegno pensionistico alla co

ntribuzione effettivamente versata con penalizzazioni sensibili dell’importo della rendita.

La terza grande riforma degli ultimi trent’anni è la c.d. riforma Fornero, che ha preso il nome della ministra cui toccò l’ingrato compito di portarla sul tavolo del Consiglio dei ministri alla fine del 2011, quando l’Italia si trovava a un passo dal default finanziario.
In realtà nella sommaria ricostruzione tralascio per ragioni di sintesi altri provvedimenti riformatori minori intervenuti nel frattempo che portano il nome dei ministri di volta in volta in carica e il marchio indelebile del loro portato innovatore: la riforma Maroni nel 2004, con il noto “scalone” nell’età di accesso alla pensione, ma anche con la c.d. opzione donna; la riforma Damiano nel 2008 con il taglio dei coefficienti per il calcolo contributivo; la riforma Tremonti nel 2010 con l’allungamento delle c.d. finestre fino alla durata siderale di 18 mesi. Nulla rispetto alla riforma del 2011, che elevò sensibilmente i requisiti di accesso alla pensione di vecchiaia portandoli rapidamente da 62 a 67 anni (con proiezione a 70 anni); e che rese più complesso raggiungere anche la pensione anticipata (ex pensione di anzianità), fissando il requisito di contribuzione a 42 anni e un mese per gli uomini e con lo sconto di un anno in meno per le donne, ma con la promessa per tutti di un progressivo innalzamento del requisito in base all’incremento della speranza di vita.
Alla riforma Fornero, pur tenendo conto della durezza dell’impatto sociale che ha prodotto, vanno riconosciuti a mio parere 3 grandi meriti che possono orientare le scelte del legislatore di oggi:

  1. per la prima volta armonizzava e allineava i requisiti pensionistici di tutti i settori, per i lavoratori dipendenti e quelli autonomi, del settore privato e pubblico;
  2. aboliva le c.d. “finestre”, l’espediente ipocrita di tante riforme precedenti (e successive, v. Quota 100), per differire l’effettiva liquidazione della pensione rispetto al momento del conseguimento del requisito;
  3. estendeva a tutti i lavoratori il metodo di calcolo contributivo con riferimento alle anzianità maturate dal 2012.

Certo, la riforma conteneva anche diverse imperfezioni tecniche. La più nota è la gestione dei lavoratori già estromessi dal mondo produttivo (c.d. esodati) che è stata maldestramente affrontata con le numerose e reiterate “salvaguardie”, l’ultima delle quali si è conclusa nel 2021, cioè 10 anni dopo la riforma. Un’altra, meno nota, è l’applicazione universale del sistema contributivo, senza considerare che in alcuni casi per coloro che avevano superato i 40 anni di contribuzione esso generava addirittura dei vantaggi sull’importo della pensione rispetto al sistema retributivo. A questo errore fu posto rimedio nel 2014 con l’introduzione del c.d. doppio calcolo delle pensioni, che pone in pagamento l’assegno di importo minore.
Nonostante queste indubbie imperfezioni, gli elementi di pregio sopra richiamati dovrebbero a mio avviso rappresentare i punti fermi, i pilastri di ogni nuovo intervento riformatore. Intervento che riguarderà probabilmente la pensione anticipata, piuttosto che quella di vecchiaia.

1^ ricetta: calcolo contributivo per tutti – L’opzione di riforma più probabile pare l’introduzione del sistema di calcolo contributivo della pensione per tutti i lavoratori e per tutte le anzianità contributive, non s

olo per quelle antecedenti il 1996 o il 2012. L’effetto di questa riforma sarebbe particolarmente pesante per coloro che possono vantare rilevanti anzianità contributive maturate prima del 1996, perché condurrebbe a una severa riduzione dell’assegno pensionistico. Per attenuare l’effetto si potrebbe ipotizzare il riconoscimento di una maggiorazione del coefficiente di trasformazione corrispondente all’età, commisurata agli anni di contribuzione precedenti al 1996.

Il pregio di questa soluzione è quello di alleggerire la spesa pensionistica e di non incrementare la contribuzione a carico delle aziende e dei lavoratori.

2^ ricetta: penalizzazioni per chi lascia il lavoro prima di una determinata età – Si può mantenere inalterato l’attuale sistema di calcolo “misto” delle pensioni, che conserva fino ad esaurimento il metodo retributivo nella certezza che prima o poi tutti coloro che hanno maturato contributi prima del 1996 saranno pensionati. Ma se si vuole arginare la spesa pensionistica e favorire l’uscita anticipata dei lavoratori si potrebbe introdurre una penale, cioè una decurtazione percentuale della pensione, per coloro che, fermo restando un requisito di anzianità contributiva minima, lascino il lavoro prima di una determinata età. L’idea non è nuova: era già stata proposta dalla riforma Fornero del 2011 con l’introduzione di una penalizzazione per l’uscita dal lavoro prima del 62° anno di età, ma fu presto abbandonata.

Esigenza di rafforzare la previdenza complementare – Che si scelga l’una o l’altra ricetta tra quelle sopra indicate (ma ne esistono sicuramente altre) resta fondamentale stimolare e rafforzare la previdenza complementare, che in Italia ha raccolto finora un’adesione modestissima. Perché, a prescindere dalla soluzione che verrà intrapresa, già oggi il divario tra la pensione generata dalla contribuzione obbligatoria e l’ultimo stipendio goduto dal lavoratore è rilevantissimo. Il tasso di copertura dell’assegno pensionistico rispetto all’ultima retribuzione si colloca mediamente tra il 60% e il 65%, con tendenza a rapida diminuzione: ciò comporta per il lavoratore un drastico ridimensionamento del tenore di vita. Se si considera che le nuove pensioni contributive non godranno più dell’integrazione al trattamento minimo, la platea dei nuovi poveri rischia di allargarsi enormemente e diventare un’emergenza sociale.
E speriamo che a nessuno dei riformatori venga in mente di elevare la contribuzione perché questo avrebbe riflessi negativi sia sul costo del lavoro che sul mantenimento dell’occupazione in Italia. Del resto, al capitolo pensioni i datori di lavoro e i lavoratori italiani già destinano ingenti risorse: l’assicurazione obbligatoria IVS pesa da sola il 33% della retribuzione lorda (34% oltre la prima soglia); quella complementare volontaria assorbe circa il 7% (TFR) cui si aggiunge la contribuzione ordinaria (dal 3,2% al 4%). Complessivamente per un lavoratore “virtuoso” che aderisca alla previdenza complementare, alla voce pensioni viene destinato, dunque, poco meno del 50% della retribuzione lorda. Si può chiedere di più senza penalizzare il salario o far esplodere il costo del lavoro? Certamente no.

Si può fare, tuttavia, qualcosa che costa molto poco alla finanza pubblica e può favorire il decollo della previdenza complementare:

  • aggiornare il limite annuo di deducibilità fiscale della contribuzione dall’anacronistica soglia di 5.164 euro, a un tetto in linea con i tempi (ad esempio, € 10.000);
  • eliminare il contributo di solidarietà del 10% che colpisce (e disincentiva) la contribuzione del datore di lavoro, facendo sembrare l’investimento nella previdenza complementare una sorta di benefit per lavoratori privilegiati, anziché una stringente urgenza sociale.